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Chiara Negri

I RACCONTI DELLA PITTURA

1997

Questa pagina per Isabella Cuccato non può che iniziare – ancor prima che da uno sguardo ai risultati del suo fare – dal come lei fa, dalla straordinaria miscela di libertà e intenzione creatrice che ne sono all’origine, dalla felicità che Isabella sperimenta nel fare, e che sa trasmettere agli altri. 

    Le trentotto grandi tempere su tela esposte a Palazzo Ducale (alcune davvero grandi: tre metri per due e mezzo) sono il frutto di pochi mesi di un lavoro molto intenso, il cui punto di partenza è stato proprio la decisione di lasciarsi alle spalle tutto quanto il «prima»: quei trompe-l’oeil nei quali pure è esperta e ha raggiunto esiti notevoli, condizionati però quasi sempre – almeno quanto a misure e destinazione – dai committenti, cioè padroni di case normali (non certo palazzi), case troppo anonime e grigie dove creare ad arte l’illusione di un’apertura sul cielo, sul mare, sul verde, a far più gentile un quotidiano in cui la dimensione del bello non è ormai che una trafittura di nostalgia, presto dimenticata.

    Voltare le spalle al «dover fare» per andare incontro a potenzialità non ancora espresse, questa è stata la molla che l’ha spinta a cominciare. E piano piano dai suoi quadri sono scomparse sempre più cose, e altre ne sono apparse al loro posto. Via le colonne e le rocce, i vasi le fruttiere le conchiglie, le teste di antichi personaggi, gli elementi d’ornato architettonico e gli stendardi, i panneggi e i paludamenti (in mostra, riconoscibilissimi, dal sapore decisamente dechirichiano, ci sono almeno tre quadri di media grandezza intitolati Mare antico I, II e III che appartengono ancora a questo clima, e infatti sono stati dipinti per primi). Via perché ridondanti, qualche volta concettosi, simili nel fitto aggregarsi di oggetti alle incrostazioni che ricoprono certe superfici celandone la forma, la nudità tanto più essenziale. Via anche quei piccoli segni che fanno riconoscere il colore di scuro petrolio degli sfondi come acqua, come mare. Niente più ricciolini e spume di onde, o riflessi di barche alla fonda. Quel che resta ha un identico colore dappertutto, ed è acqua comunque e dovunque, anche su in alto; però potrebbe anche essere aria, un’aria fresca, di temporale, perfetta per sostenere con la sua densità cose e persone. 

     Persone, ecco. Nel percorso verso l’interno mondo, i quadri di Isabella si sono popolati di gente; donne e bambini soprattutto. Sono presenze costanti e benefiche, assieme alle imbarcazioni – gusci, nidi, gondole, arche, nudi contenitori che son lì a proteggere il loro contenuto dalla forza dell’acqua-aria che pervade ogni cosa. 

      In parecchie di queste tele le figure femminili sono rappresentate da sole, adagiate o appoggiate con cura sul supporto della barca. C’è una bellissima figura dormiente (Sogno), la testa scura avvolta in una specie di grande collare candido e leggero e un abito a righe nelle sfumature del giallo dell’azzurro e del rosa, che è un evidente citazione della Zingara del Doganiere (e del resto lo stesso tessuto rigato torna in altri quadri, a vestire altri personaggi). L’imbarcazione porta a un’estremità una coroncina di foglie e minuscoli fiori annodata da un nastro rosso: se ne sta lì appesa al collo proprio come una collana, e fa sì che guardiamo alla barca come a una presenza dall’inconfondibile segno materno. [...]

    Le vele, grandi, colorate, a più strati, sono le quinte su cui si stagliano improvvise apparizioni, personaggi fuori scala, molto più grandi del normale: è l’irrompere della dimensione ultraterrena, è il mistero di una divinità enigmatica, di un nume che è impassibile ma forse non malevolo; oppure, più semplicemente, è un’immagine sognata sulla quale viene proiettato un desiderio (la figurina dormiente di Sonno, voltata su un fianco nella barca, oltre la cui vela appare un grande volto femminile: la materializzazione – in senso junghiano – del Sé?). [...]

    I quadri dipinti da Isabella trasmettono molte cose a chi guarda; sono i segni affioranti e pieni di pudore di un mondo interiore che manda le sue radici molto in profondità, che attinge a una zona non arida ma al contrario ben irrorata da correnti vitali. Spesse volte, nei più riusciti, si avverte un alito di vera poesia, qualcosa di arcano, di ambiguo, un sereno stupore. Credo che da parte sua ci sia voluto anche del coraggio per aprire una a una tutte queste porte. 

   Noi che assistiamo a questo suo viaggio non possiamo che registrarne l’appassionata serietà, godendo delle immagini che ci sono offerte a piene mani.

 

Chiara Negri, storica dell’arte 

dal catalogo della mostra di Mantova, Le storie le barche nel blu, 1997

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