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Guido Canella

ALDO E ISABELLA

2002

Cara amica,

puoi capire come, pur apprezzando molto il tuo lavoro e restandovi coinvolto, mi riesca difficile pronunciarmi su opere di pittura. E non solo per una certa subentrata anelasticità mentale, ma anche per quella congenita deformazione da architetto che mi trova, profano, incline a solidificare le immagini e a contestualizzarle in una geografia di strumentali, e magari arbitrari, riferimenti.

    Da tempo ti so laureata architetto a Venezia, così ora, ammirando la tua pittura, mi viene spontaneo di rischiare riscontri con la poetica di Aldo Rossi che fu tuo maestro e relatore. Aldo ha sempre progettato partendo da un’ispirata e decisa prefigurazione, con disegni spinti fino ai confini della pittura, pur rimanendo essi in tutto e per tutto di mano d’architetto. Un confine che invece alcuni suoi allievi, tu fra questi, hanno valicato con esiti distinti e ben riconoscibili.

    Nel caso di Aldo ritengo che ci troviamo di fronte a opere e progetti che si fanno carico dell’intera storia dell’architettura, perlustrandola e selezionandovi archetipi da reinterpretare e purificare, quasi ad ammonimento, nel denso e tragico teatro della città contemporanea. Con parallelo riguardo, mi sembra che tu chieda alla pittura di radicarsi nella propria tradizione per reagire al suo presente stato di dissoluzione tecnica e di significato. Ma, per obbligarsi moralmente al passato, occorre darsi un punto di partenza o, meglio, una stazione di osservazione. Per il suo andirivieni universitario Aldo è da considerare veneziano quanto milanese, e si può sostenere (come, ancora studenti, gli predissi e lui se ne mostrò contento) che egli abbia intinto la penna nell’inchiostro della metafisica padana, nel tragitto da essa compiuto da Ferrara a Torino, passando per Milano. Tu sei veneta di radici, ma ormai a buon diritto milanese.

    Si è scritto tanto e in modo lusinghiero e pertinente della tua pittura, assai meglio di quanto io sia in grado di fare. E, coerentemente, vi si insiste sull’atmosfera tra metafisica, affabulante, per qualcuno perfino surreale, che essa riesce a comunicare. Come certo sai, si è sostenuto che sia stata la nietzschiana ortogonalità di Torino base del De Chirico metafisico alla mostra di Parigi del 1913. Ma allora non è forse lecito supporre che esista una Milano dall’immagine austera, introversa, contratta nella propria segreta monumentalità, contorta nella trama del connettivo edilizio, eppure capace di liberare in certa fisicità allegorica l’immaginario di non pochi intellettuali e artisti? Dacché si può constatare che pittori, scultori, architetti, scrittori, pur d’altrove nativi e ispirati, vi hanno registrato rispettivi modelli e canoni di importazione parafrasandone il singolarissimo genius loci. Per esempio: non è stato così in epoca rinascimentale per artisti richiamati dal Centroitalia (da Filarete a Leonardo)? non è stato così con il tema della natura morta nel Seicento lombardo? e ancora nel primo Novecento per pittori e scrittori autoctoni o di passaggio (dai famosi Metafisici a Morandi, da Funi a Sciltian e, per una linea di scrittura che riscopre oggetti e stanze, da Savinio a Montale)?

    Quando poi l’immaginario si complica in enigma, il suo cifrario va cercato, rimuovendo impressioni di superficie e pregiudizi, ogni volta nel congegno mentale di chi ce lo ha proposto. E qui non è da escludere che abbia contato, e continui a contare anche per te, quel mitico vento d’Oriente, di cui è filtro, anche di colore, Venezia, e che perviene a Milano non del tutto fiaccato, a costruire una linea lombarda, magari elitaria, ma comunque alternativa (e talora scambiatrice, come nel caso di Aldo) a quella espressionista. Dove cercare il tuo cifrario?

     Mi sono affacciato alla Wunder Kammer della serie «Cieli stanze paesaggi» del ’93, scoprendo che ciò che vi è rappresentato punta magistralmente al vero concreto, ma poi sull’apparente oggettivata realtà si stende quella serena apatia sufficiente a svelare l’artificio, il voluto straniamento, volta a volta attraverso la centralità o la marginalità dell’inquadratura, il variato tono della luce da mattinale a crepuscolare, il paesaggio di fantasia colto da una finestra. Ma l’evento avviene senza una gerarchia di scena, poiché fiori, vasi, tende, tovaglie, pareti, porte vi rientrano alla pari e ognuno da protagonista, tanto che lo può diventare perfino un puntiforme fogliame alla leonardesca o alla doganiere Rousseau.

    Nella serie «Le storie, le barche nel blu» del ’97 (che personalmente prediligo) il tuo progetto dipinto, con sfondo blu petrolio lacerato da larghe campiture di colore acceso, e queste quasi sollevate dal compito di descrivere, a tutta prima sembra puntare ai fauves o addirittura all’informale. A ricondurlo sulla via del racconto di magia è il loro trasmutarsi in vele carpaccesche, gonfie di vento per barche immobili, sospese nel tempo e abitate da angelicate figure naviganti dallo sguardo estatico. Così che l’inquadratura appare come fosse particolare ritagliato dallo sfondo di un grande quadro dedicato a un rinnovato Miracolo di Sant’Orsola.

    Nella serie «Le mie città» degli ultimi anni quella originale vocazione alla pars construens, in precedenza tenuta a freno, ora, senza più inibizioni, si scioglie e distende in pittura d’architettura. Vuoi in metafora, con aguzzi prismi, marmorei e granitici, congiunti in partitura per concerto da camera. Vuoi in veri e propri frammenti di città, ricomposti, per traslato insieme onirico e utopico, nello scorrere del tempo dall’antico alla modernità in una collezione di acropoli, cittadelle, fortezze, accampamenti, dove l’incanto viene reso dal vibrato morandiano che li sublima e il disincanto dal flusso schiumoso dechirichiano-saviniano che li attraversa.

    Ecco che, con questo tuo ultimo Voyage d’Orient mediterraneo, esteso dal deserto forse fino a Persepoli, sicuramente da Costantinopoli ad Atene, da Venezia a Milano, mi sembra aprirsi un ciclo dove la memoria di Aldo riaffiora non formalmente, ma per tenue dissolvenza, come omaggio morale.

Ricevi allora anche questo mio divagante apprezzamento.

Guido Canella, architetto

dal catalogo della mostra di Atene e Salonicco, Le opere il mare, 2002

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